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Sentinella, quanto resta della notte?

Il fantascientifico Dino Buzzati: lo spazio

Nella sua vasta produzione Dino Buzzati lambisce anche la fantascienza. Lo fa con garbo e a volte con ironia, confrontandosi costantemente con l’ignoto e l’inesplicabile che circondano l’esistenza umana. Ogni suo scritto, compresi quelli con tematiche fantascientifiche, ha, inoltre, la particolarità di rimandare sempre ad altro riempendosi di suggestioni e significati che rendono la sua opera sempre attuale e suggestiva e quindi da ricordare.

In his vast production Dino Buzzati also touches science fiction. He does it gracefully and sometimes with irony, constantly confronting the unknown and the inexplicable that surround human existence. Each written by him, including those with science fiction themes, also has the particularity of always referring to something else, filling itself with suggestions and meanings that make his work always current and suggestive and therefore to be remembered.

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Se una sera, come si faceva un tempo, ci si trovasse assieme a degli amici a fare un gioco e si decidesse di optare per gli indovinelli, alla domanda che cosa ha scritto Dino Buzzati tutti risponderebbero senza esitazione: Il deserto dei tartari.

Alcuni scrittori sembrano subire uno strano sortilegio. Vengono associati ad una loro opera quasi avessero scritto soltanto quella.

Penso, ad esempio, ad Alessandro Manzoni che viene comunemente associato a I Promessi Sposi, quando è noto che abbia scritto anche altri indiscussi capolavori o a Italo Svevo con La coscienza di Zeno.

Non starò ad indagare in questa sede il motivo di questo fenomeno ma voglio solo

prendervi spunto per cercare di andare oltre Il Deserto dei tartari per osservare come Buzzati abbia, nella sua vasta produzione, percorso strade che lo hanno portato non solo nell’ambito del fantastico (sulla dimensione del fantastico in Buzzati si veda ad esempio la sintesi di Antonia Arslan, Invito alla lettura di Buzzati, Mursia, Milano1993) ma anche in quello propriamente fantascientifico.

L’interesse di Buzzati per astronavi, alieni e tecnologia risale, almeno, agli anni Cinquanta ed è continuato per tutta la vita sia come giornalista sia come scrittore.

Già ne Il crollo della Baliverna, che è stato pubblicato nel 1957, la tematica spaziale viene utilizzata dallo scrittore per alcuni racconti come: 24 marzo 1958 e Il disco si posò. (D. Buzzati, Opere scelte, I Meridiani, Mondadori, Milano 2012 da cui sono tratte le citazioni seguenti).

In 24 marzo 1958 Buzzati racconta tre immaginari fallimentari tentativi di conquista dello spazio da parte dell’umanità.

A tale proposito può essere interessante ricordare cosa pensasse Buzzati della possibile esistenza di esseri extraterrestri: «Io personalmente non credo che ci siano altre creature simili all’uomo nell’universo. È una opinione del tutto personale e gratuita, ma che deriva dalla concezione che io ho dell’uomo, che per me è una straordinaria e quasi incredibile malformazione della natura». (Y. Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, Mondadori, Milano 1973).

buzzati-03Così parla l’autore nella sua intervista con Yves Panafieu e in questa affermazione gentile ma ferma, dà una precisa indicazione antropocentrica fondamentale per comprendere l’utilizzo che Buzzati fa della fantascienza, che nelle sue opere appare dedicata principalmente alla denuncia della presunzione umana. La fantascienza, che Buzzati intende come volontà di potenza dell’uomo, basata sulla tecnica e sulla conquista dello spazio extraterrestre si dimostra ideale per rappresentare, non tanto la grandezza dell’uomo ma, la sua limitatezza.

Di fronte alla vastità dell’universo l’uomo appare infinitamente piccolo ed è costretto a riflettere su di sé e a ridimensionarsi.

A guardar bene in Buzzati le varie attività letterarie sono sempre fortemente connesse. Giornalismo e letteratura sono in continua osmosi.

Così scorrendo gli elzeviri da lui scritti per il «Corriere della sera» si possono individuare almeno una trentina di apologhi, racconti e prose satiriche, in cui il tema Uomo – Universo viene declinato in base a questa idea dell’uomo come particella minuscola del Cosmo.

Ne L’ingombro (1959), ad esempio, gli esseri umani, convinti di essere i più evoluti esseri dell’universo, sono in realtà semplice pulviscolo nell’occhio del “Padre Sole”.

In E dopo? (1959), viene presentato un dialogo tra la Terra e la Luna in cui si irridono le pretese di conquista universale degli uomini.

Negli elzeviri Contro le stelle (1956) e Sulla Luna (1959), anticipatori dell’allunaggio, Buzzati si sofferma sull’inappagamento umano anche di fronte a un tale “incredibile” traguardo (sul punto si rimanda a: R. Maggiore, Le operette lunari di Dino Buzzati, «Studi buzzatiani», n. 18, 2013, pp. 43-62).

Tornando a 24 marzo 1958 già dal titolo si può osservare una differenza rispetto alla maggior parte degli altri testi buzzatiani presenti nella raccolta: la vicenda è accuratamente collocata nel tempo.

La voce narrante scandisce con precisione le date fondamentali dello sviluppo dell’avvenimento.

La storia è raccontata a posteriori, una ventina di anni dopo rispetto all’inizio delle spedizioni che si sono compiute tra il 1955 e il 1958, e cioè esattamente nel 1975.

Protagonisti della vicenda sono delle macchine, per la precisione tre satelliti: “Hope”, “Lois egg” e “Faith”.

“Hope” ha la forma di una tozza matita d’argento. Il suo lancio ha, inizialmente, lo scopo e l’effetto di permettere agli uomini di dimenticare la loro malvagità e la loro infelicità. La conquista del cosmo consente all’uomo di focalizzarsi su qualcos’altro abbandonando le brutture quotidiane.

Tuttavia, in un certo senso, è anche simbolo dell’avidità umana che non si appaga dei propri confini e che deve sempre spingersi oltre. Un po’ come nel mito di Icaro l’incapacità di arrestarsi diviene presagio di sventura.

Proprio questa smania di conquista, di superamento dei limiti, infatti, porterà al drammatico fallimento della missione.

Il satellite rimane bloccato in un moto perpetuo attorno alla Terra assieme ai cadaveri dei propri passeggeri.

“Lois egg”, il secondo missile, viene lanciato nel 1957 (che corrisponde, tra l’altro e forse non casualmente, all’anno di lancio reale del russo Sputnik).

Il nome indica la sua forma. “Lois egg” ha, infatti, la forma ovale ed è «di un favoloso colore arancione».

In italiano, ed è lo stesso Buzzati a ricordarcelo, il nome significa «l’uovo di Lois» «ciò in onore di Mrs. Lois Berger, la moglie amata del costruttore, partita con lui, con lui rimasta lassù, a girare, girare eternamente; e non dovremmo qui dimenticare i loro sette compagni».

Le dimensioni imponenti del razzo, purtroppo, non lo hanno salvato dal fallimento.

È, infatti, più grande del primo, di circa quattro volte, simbolo dell’ossessione dell’uomo per l’auto superamento.

Un’ossessione malsana che lo porta a sottovalutare i rischi per inseguire un’effimera gloria,

Proprio questo desiderio sconfinato si traduce in un ennesimo tentativo e accanto a “Lois Egg”, l’umanità è pronta a lanciare un terzo satellite, nato in concorrenza con l’ultimo, in una corsa alla conquista dello spazio. L’ultimo lancio è quello del “Faith”, a strisce gialle e nere (in questo caso Buzzati fa riferimento ad un avvenimento reale, la data, oltre a dare il nome al titolo, corrisponde, infatti, a un’occorrenza reale, ovvero l’entrata nell’orbita terrestre del primo satellite artificiale lanciato dagli Stati Uniti, l’Explorer). Ma anche il terzo lancio finisce in dramma.

Il destino tragico dei tre razzi forma così un cimitero spaziale lugubre e osservabile dalla terra nel loro perpetuo vagare orbitale.

buzzati-08«In determinate condizioni di atmosfera, di ora e di luce possiamo vedere anche a occhio nudo i tre piccoli satelliti artificiali che l’uomo lanciò dalla Terra verso gli spazi interplanetari dal 1955 al 1958; e ivi sono rimasti appesi, presumibilmente per sempre, girando, girando intorno a noi. In certi crepuscoli d’inverno quando l’aria è come cristallo, tre minuscoli punti brillano, di un fisso e corrucciato splendore; due vicini che quasi si toccano, uno più in là, solitario. Ma se prendiamo un buon binocolo, o un cannocchiale a forte ingrandimento, li possiamo osservare molto meglio, quasi come degli aeroplani che volino a discreta altezza. Disteso sulla sedia a sdraio nell’atrio della sua casa di campagna, il vecchio Forrest, l’uomo che li ideò e li volle, ormai ottuagenario, consuma nella loro attesa le sue insonni notti di asma. E quando il primo dei tre sbuca dal ciglio nero del cornicione, egli si porta dinanzi all’occhio il piccolo telescopio sospeso a uno speciale supporto elastico, e guarda, guarda, per ore».

I diversi satelliti prodotti dalla più avanzata tecnologia possibile, si trovano quindi a soffrire la stessa sorte e all’interno di ognuno di essi è contenuto il prezzo che l’umanità ha dovuto pagare per compiere questo inutile passo, ovvero i corpi degli astronauti, i “pionieri” destinati a girare perpetuamente attorno alla Terra.

Sarebbe però un errore pensare che queste missioni siano state un totale fallimento.

Poco prima della loro avaria, da “Lois Egg” e “Faith” giungono sulla Terra due enigmatici e parziali messaggi radio che testimoniano l’esistenza di uno strano suono e una località misteriosa.

Per gli uomini sulla Terra quel luogo non può che essere il Paradiso.

Tuttavia, questa scoperta invece di portare gioia e felicità, come sarebbe stato ovvio, fa sprofondare l’umanità in uno stato di prostrazione.

In questo caso l’uomo sa e conosce, ma quella che ottiene è una conoscenza tutt’altro che rassicurante perché porta con sé la consapevolezza della limitatezza e dell’imperfezione dell’umano.

«Dovremmo essere orgogliosi: la casa degli Angeli è stabilita alla nostra periferia, proprio alle porte del vecchio maligno pianeta Terra, pulce delle pulci disseminate nell’Universo. Non è forse una testimonianza che siamo i prediletti fra le creature? Ho invece l’impressione che in certo modo oscuro tutti noi siamo rimasti offesi: come il cagnolino randagio che si sente padrone della vita fin che non si vede vicino il formidabile danese di gran razza; oppure anche come il pitocco a cui la gioia del pasto vien meno se accanto a lui si vede il satrapo ingioiellato; oppure anche come il bifolco che un giorno si è accorto che subito dietro il boschetto, a cento passi dal suo tugurio, il re ha costruito il suo palazzo. Inoltre, c’è il mortale pericolo di questa musica divina. Suonano e cantano, lassù. E non esiste involucro grosso abbastanza fosse anche spesso come la muraglia cinese che possa chiudere il varco a quelle note, più belle di quanto noi possiamo sopportare. […]

Di qui … la nostra afflizione. Perché quella è la Rocca del Cielo, il Regno del Trionfo

Eterno, l’Empireo, il Divino Eliseo. Ma è anche l’ultima nostra frontiera, che ci sbarra la strada; e non siamo uomini vivi! Diciamo, con sincerità: una cupola di ferro e macigno non potrebbe essere più pesante (più pesante del Paradiso). E’ bestemmiare questo?».

Rivive in queste frasi il pessimismo del tenente Drogo e dello stesso Buzzati (e forse dell’uomo stesso), prigioniero di un angusto destino dal quale non può scappare rimanendo invischiato come mosca in una ragnatela per quanto, nel caso del racconto, la ragnatela sia paradisiaca.

Sempre in tono fantascientifico è il racconto Il disco si posò.

buzzati-01La scena con cui inizia il racconto è ambientata presso un paese di campagna, in una sera silenziosa, in cui dominano la calma e la pace.

«Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (L’ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l’inspiegabile serenità del mondo, l’odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand’ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese».

Tutto è insonnolito e ovattato. Gli spiriti dal passo felpato rendono l’atmosfera magica. Ma non sono loro i soggetti principali del racconto, rappresentano, infatti, un fantastico ormai sorpassato. Il nuovo è rappresentato dal fantascientifico, da quello che oggi sono chiamati UFO (Unidentified Flying Objects) anche se all’epoca dello scritto in Italia non erano ancora così definiti.

Oggetti misteriosi il cui avvistamento era all’epoca del racconto di Buzzati evento ormai piuttosto frequente come dimostra lo scritto di Carl Gustav Jung, L’interpretazione psicanalitica degli UFO del 1958 (C. G. Jung, Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo, Bollati Boringhieri, Torino 2004).

Il disco volante irrompe sulla scena, ma lo fa armonizzandosi con l’ambiente silente.

«All’insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l’ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto».

Unico testimone della vicenda è un sacerdote, don Pietro, che dimostra un’incredibile impassibilità di fronte allo spettacolo, sebbene (vi è forse dell’ironia?) si armi di fucile. «Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio» sembra essere il suo motto un po’ poco evangelico.

Il sacerdote è nella sua camera che dà sul tetto della chiesa e sta leggendo, col suo toscano in bocca. All’udire l’insolito ronzio, si alza dalla poltrona e va ad affacciarsi al davanzale. Vede allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri.

Il disco volante si posa sul tetto della chiesa parrocchiale e ne scendono due «strani esseri» di cui il prete non saprà dare che una descrizione molto sommaria: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» dirà, specificando che erano «smilzi», alti al massimo «un metro e dieci». Ai fedeli incuriositi dirà che i due esseri erano simili a insetti, a fiammiferi, a spiritelli o a «scopetti» (avanzi di potatura degli alberi): in sostanza, non ha termini di paragone per descriverli.

Il secondo problema riguarda la lingua.

buzzati-04«Don Pietro ce lo ha lui stesso confessato rimase male: il marziano (perché fin dal primo istante, chissà perché, il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né pensò di chiedere conferma), il marziano parlava una lingua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua? Dei suoni, erano, per la verità non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure, il parroco capì subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile

Ma qual è il motivo della loro “visita”?

Vogliono sapere cosa sono le «antenne» che svettano sul tetto della Chiesa.

Don Pietro risponde che sono Croci, indispensabili per la salvezza delle anime.

Inizia così un dialogo di carattere religioso, una forma di catechesi in cui l’uomo di Chiesa cerca di erudire i due extraterrestri degli avvenimenti che hanno portato al cristianesimo. Don Pietro racconta loro la storia della cacciata dall’Eden, della venuta di Cristo per salvare gli uomini e della sua morte in Croce.

Ma gli extraterrestri non hanno mangiato «il frutto dell’albero del bene e del male» perciò non conoscono il dolore e il rimorso che rende gli uomini «avidi, turpi, mentitori», ma anche capaci di comprendere il vero significato della vita e della morte.

«”Oh poveretii” mormorò don Pietro, ma in maniera che i due non lo udissero come si fa con i malati gravi. Si levò in piedi, il sangue riprese a correre con forza su e giù per le sue vene. Si era sentito un bruco, poco fa. Adesso era felice. ” Eh, eh ” ridacchiava dentro di sé ” voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite!

Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio. ” (I due, intanto, si erano già infilati dentro allo sportello, lo avevano chiuso, e il motore già girava con un sordo e armoniosissimo ronzio.

Piano piano, quasi per miracolo, il disco si staccò dal tetto, alzandosi come fosse un palloncino: poi prese a girare su se stesso, partì a velocità incredibile, su, su in direzione dei Gemelli.) ” Oh ” continuava a brontolare il prete ” Dio preferisce noi di certo! Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgon la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?”. Per la gioia, imbracciò lo schioppo, mirò al disco volante che era ormai un puntolino pallido in mezzo al firmamento, lasciò partire un colpo. E dai remoti colli rispose l’ululato dei cani».

Da un lato quindi i marziani ripartono senza aver capito le parole del sacerdote e forse, senza aver trovato neppure una risposta soddisfacente al loro quesito sulle Croci, dall’altro Don Pietro, rappresentante dell’uomo, completa la sua trasformazione che lo porta da essere inferiore, perché imperfetto, a essere superiore per la stessa ragione.

Similmente a quanto affermato nel racconto approfondito precedentemente sembra quasi che per Buzzati la perfezione sia un male.

L’uomo deve sempre tendere verso qualcosa. La caduta da nuove motivazioni per cercare di migliorare e affrontare il mistero della vita.

Probabilmente in questa chiave va letto il rammarico di Buzzati per il diminuito interesse verso i viaggi spaziali.

«Sono andato per l’occasione in uno dei migliori negozi di retorica – ovviamente non posso fare nomi – specializzato per di più in articoli spaziali. La padrona mi ha aperto un grande armadio, pieno zeppo di iperboli e incensi e fanfare, appunto di genere astronautico e interplanetario. Ne è uscito un odore di muffa, polvere e naftalina. «Che cosa vuole, signore?» mi ha detto. «La merce è ottima, oppure non funziona più. Nel luglio 1969, il boom. Adesso, ablativo assoluto». Neanche io ho comperato. Era roba andata a male, puzzava. Ma così mi trovo anch’io sguarnito di aggettivi, di pennacchi, di trionfi, di alleluia, di gloria, di entusiasmo. Io come tantissimi altri. E così Shepard, Roosa, Mitchell (nomi poco mnemonici, come di tutti gli astronauti eccetto Gagarin, avete notato? come se l’uomo individuale personale singolo non contasse ormai più, ma solamente il gruppo, l’équipe, il team, l’idea) Shepard, Roosa, Mitchell se ne vanno per il cosmo soli soletti; ancorché bravi, meravigliosi. Perché, come tutti sanno, l’eroismo a suono di trombe ed applausi è cosa facile. Mentre è duro rischiare la vita quando pochi o nessuno ci guardano. Duro, ed estremamente elegante, rischiare la vita per una cosa che, almeno per il momento, non può dare il minimo beneficio a nessuno. E consiste unicamente nella pura, benedetta, umana follia». (D. Buzzati, Cronache, Mondadori, Milano 1995 p. 321).

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Il furore per la conquista, per la scoperta, dopo un iniziale momento di eccitazione, sta svanendo e la paura di Buzzati è quella che questa non sia l’unica rinuncia dell’uomo ma l’inizio del venir meno del desiderio di affrontare l’ignoto, il mistero.

Mistero ed ignoto che circondano l’esistenza dell’uomo e per quanto impenetrabili debbono sempre essere sfidati. Così come vorrebbe fare Drogo ne Il deserto dei Tartari. Non bisogna rinunciare, prima o poi i Tartari arriveranno e bisogna farsi trovare pronti.

Questo costante confronto con l’ignoto, l’inesplicabile assieme al suo modo di scrivere rende le sue opere simili a parabole variamente interpretabili.

Come scrive Ferdinando Castelli «Non esiste una pagina di Buzzati che sotto sotto non rimandi ad un significato altro» e ciò rende i suoi scritti sempre attuali e lo avvicinano inevitabilmente, per quanto Buzzati rifiutasse questo accostamento, a Franz Kafka. In un’intervista del 1962 sul settimanale “Tempo”, Buzzati, ad esempio, affermerà perentoriamente: «Kafka è Kafka, io sono io. Piantiamola con questa storia».

Ma non sono bastate le sue parole per spezzare questo legame, tanto da essere definito da Le Figaro, in occasione della sua morte: «il Kafka di cristallo».

Un po’ arbitrariamente e sommariamente credo che Kafka avesse una maggiore e più tragica capacità di sondare l’esistenza e la sua (apparente) assurdità.

Buzzati mantiene, invece, sempre un velo di leggerezza, di ironia in molti suoi personaggi come nel buon Don Pietro (e nel suo fucile) che lo fanno assomigliare, pur in un contesto diverso, più al bonario Don Camillo di Guareschi che ai cupi e indecifrabili personaggi dello scrittore boemo (sul punto si rimanda a M Canauz, Kafka e le donne. Amori e personaggi dell’universo kafkiano, Atheneum, Firenze 2009).

Questo suo tratto di garbato indagatore del mistero della vita non lo allontana mai dal rispetto per il prossimo. In Buzzati convivono la capacità di guardare lontano senza perdere però umiltà e rispetto per l’uomo. Fatto questo che derivava, probabilmente, dal suo carattere.

Il carattere di un artista geniale e originale ma anche umile e sensibile come ben esemplifica questo fatto ricordato da Lucia Bellaspiga con il quale voglio concludere questo mio contributo.

«Buzzati era amico dei carcerati, dei barboni, dei senza tetto, dei reietti in generale, pur essendo un galantuomo d’altri tempi, il che traspare anche dal suo abbigliamento; cosa che lo ha fatto passare erroneamente come un conservatore, mentre invece era di una modernità straordinaria, tant’è vero che all’epoca non veniva compreso. Lui era avanti anche come arte: “Poema a fumetti” era un’opera di pop art, quindi all’epoca non poteva essere capito, io dico che oggigiorno noi finalmente lo abbiamo raggiunto. Per quanto riguarda questa sua vicinanza agli umili, racconto un episodio della sua vita che mi è stato raccontato dalla moglie ed è anche attestato nelle sue lettere come un fatto assolutamente credibilissimo. C’era una barbona, “la Caterina”, che però leggeva il Corriere della Sera e ogni mese alla stessa data si presentava in via Solferino, quindi il tempio del giornalismo, dove non si entra perché vieni guardato male se non sei del Corriere della Sera. Però questa barbona aveva il lasciapassare per salire nell’ufficio di Buzzati a ritirare ogni mese la busta di denaro che lui le passava, quel giorno poi restava a discutere di giornalismo, letteratura eccetera. Una volta non si presentò “la Caterina”, ma si presentò “la Pina”, un’altra barbona. Buzzati s’interrogò e le chiese: “Ma come mai, cosa è successo alla Caterina?”, quella gli rispose: “No, no, niente non si preoccupi, non sta bene, e ha mandato me”. Ha preso il denaro e se ne è andata. Mese successivo, stessa scena; terzo mese stessa scena, a quel punto Buzzati si è naturalmente preoccupato e ha chiesto “Che cosa è successo? Adesso me lo deve dire!” e allora la Pina ha tirato fuori questa busta con dentro una lettera e ha spiegato: “La Caterina è morta ma in eredità nel testamento mi ha lasciato il dottor Dino Buzzati” e queste lettere ci sono tuttora». (Atti dell’incontro presso il Centro Culturale Milano, “Dino Buzzati, la fatica di credere”, Lucia Bellaspiga e Mauro Grimoldi).

Maurizio Canauz @ Gennaio 2023

 

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Questa voce è stata pubblicata il 15 febbraio 2023 da in home, On the road, vagabondi dell'anima, Stanza 101, tutti gli articoli con tag , , , .
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